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Il personaggio

Roberto Bortolotti, Siram Marzola (C femminile)

Tante coccole a tutti. Non male come intro è? Vabbè, sapete che sono uno a cui piace cambiare spesso e volentieri, non avevo mai salutato così e allora perché non farlo una volta tanto? Va bene, cavolate a parte questa settimana ammetto sono stato davvero in crisi nera. Non solo per problemi miei, ma anche perché decidere chi fare come Personaggio è stato un bel percorso ad ostacoli. Lunghe consultazioni via Skype con il webmaster del sito più bello che ci sia (indovinate quale sito… :-) ) ma nulla di concreto, nulla che ci facesse dire “perché no?”. Così, al baretto dietro a dove lavoro, mangiando un panino con prosciutto, formaggio e funghi all’improvviso da dietro la cassa è venuta fuori l’illuminazione divina… E non mi riferisco ad una barista piacente… In sintesi, mi chiama un dirigente di una squadra maschile, mi chiede un parere su un giocatore e io (da buon emulo di Luciano Moggi, come dice qualcuno) gli do il mio parere e le mie valutazioni. Ecco l’idea! Ormai l’estate sta arrivando, i giocatori si tolgono le magliette per infilare il costume e dedicarsi a riposo, beach volley e green volley. Gli unici a lavorare questa estate chi sono: i dirigenti. E allora perché non approfondire questa figura che, finora, è stata toccata solo di striscio dal Personaggio. Davvero i dirigenti sono tutti incompetenti e bramosi solo di potere? Davvero i dirigenti sono il male con fattezze d’uomo? Non è che molte nostre società sono in difficoltà perché di dirigenti non ce ne sono e allora tirare avanti è dura? Muble muble.... Muble muble… pensa e ripensa mentre il panino finisce e la Camel anche… Chi può fare al caso mio? Chi mi può raccontare cosa vuol dire essere dirigente? Devo beccare qualcuno che possa parlare di tutto ciò. Così, opto per chiamare uno dei dirigenti di più lungo corso della pallavolo nostrana, Roberto Bortolotti direttore sportivo del Marzola da qualcosa come 15 anni ormai. Con lui proviamo, a carattere generale, a parlare della “dura” vita del dirigente e di come si possono aiutare le nostre società. Buona lettura!

Roberto, arriva l’estate e questo è un po’ il vostro periodo, il periodo nel quale i dirigenti devono sgobbare…
“E’ vero che in estate a noi dirigenti tocca lavorare moltissimo, ma a dire il vero questo è un lavoro che inizia già da molto prima. Inizia con l’avvio della stagione precedente, quando si comincia ad andare in giro ed a visionare giocatori e giocatrici. Questo è il periodo nel quale noi dirigenti siamo più spesso sotto pressione, ma quello del dirigente è un impegno che va avanti tutto l’anno”.
Dura è condurre “affari di volley mercato”?
“Più che dura direi estenuante. Molte volte semplicemente per andare a prendere un ragazzo o una ragazza magari di 15 o 16 anni servono lunghissimi colloqui, giornate e giornate passate a parlare con la società di appartenenza. Di solito gli atleti sanno bene cosa vogliono e dove vogliono giocare, hanno le idee chiare, hanno sempre la voglia di fare un salto di qualità. La cosa difficile in questa fase di mercato è convincere l’altra società che non stai cercando di fare un furto delle sue ragazze, anzi stai cercando di dare a queste ragazze l’occasione di un salto di qualità. Che prendere quel giocatore che anziché tredicesimi li fa arrivare dodicesimi in una Divisione non è uno sgarbo gratuito. E’ sempre colpa dei dirigenti se qualcosa non funziona, se invece si vince lo scudetto è merito dell’allenatore, che però magari quei tre giocatori pescati dalla società che han fatto la differenza non li conosceva nemmeno”.
Come si conduce una trattativa ai livelli nostrani?
“Muovendosi con correttezza in primo luogo. Non promettendo e illudendo l’atleta e magari i genitori se questo è molto giovane, far capire ai giocatori che per migliorare adesso si dovrà lavorare il triplo, che arrivano in una squadra dove ci sono magari altri atleti più maturi e forti di lui e che solo lavorando quanto loro riusciranno ad arrivare a quei livelli. E’ indispensabile stabilire subito un rapporto di fiducia e correttezza fra le due società, l’atleta ed i genitori”.
Ma, purtroppo, spesso si saltano le società andando a trattare direttamente con l’atleta che si vuole acquistare. Non è proprio la strada più corretta…
“C’è chi sceglie una strada rispetto all’altra, ma io credo che la politica dell’”arrembaggio” abbia vita breve. Provare ad abbindolare gli atleti promettendo di giocare subito ad altissimi livelli, di avere la tuta gratis, di non dovere pagare la quota e cose del genere è una tattica che può funzionare nel breve periodo, alla lunga si paga. Un atleta giovane può avere grandi potenzialità e una sua personalità che si sta formando, ma sono fattori che si devono portare avanti con un po’ di calma. Ormai invece anziché aspettare anche una certa maturazione dell’atleta vanno a cercarle, soprattutto nel femminile, fra i più giovani, addirittura al minivolley. Ci sono società che guardano nel minivolley e si annotano eventuali bambine interessanti per il futuro. A me sembra una esagerazione, soprattutto se poi non si tiene nemmeno conto della società che questa ragazzina l’ha avviata alla pallavolo. Andando avanti su questa strada si arriverà alla follia pura. E’ il mercato delle bambine, come lo chiamo io”.
Soprattutto in campo femminile c’è questa “corsa alla giovane” anche in fase di mercato, ma il rischio è quello di esagerare anche in questa corsa ai giovani talenti?
“Quando le ragazzine che giocano in Under 13 vengono annotate dalle società che si precipitano in famiglia a promettere mari e monti allora sì è una esagerazione. Una ragazza di quella età ci mette anni a maturare nel modo giusto, meglio quindi secondo me lasciarla maturare nel proprio ambiente, lasciare che cresca facendo le proprie esperienze e continuare a seguire come sta maturando. Tenendo poi buoni rapporti con la società di appartenenza. In giro ho visto spesso ragazze interessanti per una nostra serie C o serie D, mentre chi ha davvero le potenzialità per arrivare ancora più in alto allora quelli sono atleti che vengono fuori subito. Sono talenti che si riconoscono subito e che esplodono a livelli che purtroppo ora noi non abbiamo”.
Una cosa parlando di dirigenti mi è chiara: sono molto pochi. Sono pochi e per molte società è difficilissimo tirare avanti con il lavoro e l’impegno di pochissime persone. E qui si potrebbe tornare a parlare di fusioni, unioni, ecc… fra società così da avere anche più dirigenti, risorse, potenzialità, eccetera ma so di parlare al vento…
“In sé il problema è molto semplice: il 95 per cento dei dirigenti della pallavolo di casa nostra seguono la carriera del figlio o della figlia. E quando questo smette, smettono anche loro di cimentarsi con l’impegno in una società sportiva. Quando il figlio gioca si entra in società, si entra nel direttivo, si fanno i segnapunti, gli arbitri giovanili, eccetera. Poi però quando il figlio smette allora finisce tutto. Personalmente, ho avuto la fortuna/sfortuna di avere tre figlie, per cui sono quindici anni che sono nella pallavolo e ancora non ci uscirò. E sono convinto non smetterò di fare il dirigente nemmeno quando tutte le mie figlie smetteranno. Poi c’è sempre da considerare un’altra cosa, ovvero che i dirigenti non vengono pagati. Sfatiamo questo mito una volta per sempre. Anzi, molto spesso il dirigente apre il portafoglio e ci rimette, pagando pizze o altre occasioni per la squadra. I dirigenti dei nostri campionati non sono pagati, lo fanno solo per passione e per il piacere di lavorare in un gruppo e in una società nella quale si sta bene e ci sono tanti amici”.
A proposito di miti da sfatare, c’è n’è uno che vuole i dirigenti brutti e cattivi, vogliosi solo di potere… Anche se, personalmente, penso che in questi casi si debba davvero distinguere caso per caso, come in ogni lavoro ci sono i più bravi ed i meno bravi
“La figura del dirigente storicamente è al centro delle critiche di allenatori, atleti e familiari. E’ dura per un dirigente dover metter insieme le esigenze di tutti e dover soddisfare tutti, non è per niente facile. Così come è difficile molto spesso far capire alla famiglia ed ai genitori di un ragazzo o di una ragazza che il proprio figlio non è un giocatore da campione del mondo. E’ anche brutto esser franchi e diretti, ma ci tocca esserlo. Spesso i figli sono lo specchio delle frustrazioni dei genitori, che vedono nei figli quello che loro non sono riusciti a fare, ma bisogna riuscire a far capire loro che si tratta di persone e situazioni molto diverse. Bisogna avere tanta pazienza e tanta voglia di mediare, consci comunque che si è essere umani e che quindi non si riuscirà mai ad accontentare sempre tutti”.
Tornando al problema di prima, ovvero che i dirigenti trentini sono pochi e non tutti sullo stesso alto livello, questo si vede anche da molte (troppe…) società nelle quali è l’allenatore a fare il dirigente. Ma questa confusione dei ruoli non ci vorrebbe
“Questo succede proprio perché dirigenti non ce ne sono, perché tante società non hanno abbastanza persone come dirigenti e allora tutto è affidato in mano all’allenatore. Una società deve pensare ad oggi, a domani, a fra 5 anni, mentre un allenatore magari oggi c’è e fra due anni è da un’altra parte. E’ la società che prima di tutto deve esser solida, il resto viene dopo da sé. Una società deve sapere bene quali sono i propri obiettivi e lavorare in autonomia in quel senso. E’ dura fare e seguire tante squadre se non hai una società abbastanza solida per sostenere tutto”.
Una cosa mi chiedo, come mai cioè nel volley a differenza di quel che succede nel calcio gli ex giocatori o giocatrici si “riciclano” solo come allenatori e mai come dirigenti. In fondo questo sarebbe un bene anche per il femminile, visto che i dirigenti di lungo corso solitamente vengono fuori dal maschile
“Ad un ex giocatore è dura far fare qualcosa che non sia l’allenatore, anche solo magari il segnapunti o l’arbitro giovanile. La distinzione fra dirigenti e allenatori deve essere netta, l’allenatore può consigliare e dire la propria idea, ma non può dettare la linea della società”.
Domandina da un milione di euro: come deve essere un bravo dirigente?
“Altro che milione di euro, questa è una domanda da cento miliardi di euro. Io credo che ogni dirigente di qualunque grado crede di esser bravo, personalmente credo che un dirigente sia bravo se anno dopo anno tutte le sue squadre restino a giocare ad alti livelli. Raggiungere una volta un grande risultato è un conto, esser sempre lì a giocarsi la vittoria tutti gli anni è sinonimo di programmazione e impegno. Non necessariamente questo obiettivo che si insegue deve essere la vittoria, può esser l’impegno con giovanile o molto altro. Secondo me i bravi dirigenti sono quelli che programmano l’attività riuscendo a tenere tutto sotto controllo, allora quelli secondo me sono i bravi dirigenti”.
Una cosa mi son sempre chiesto: un’atleta vuole andar via ma ha un contratto con una società o il suo cartellino è di una società che non lo molla e questa non lascia partire l’atleta. Chi ha ragione? L’atleta che giustamente vuol andar a giocare dove preferisce? Oppure la società che con quell’atleta ha un accordo?
“Semplice, la ragione è a metà strada. Un atleta ha il diritto di andare via da una società, ma la società che su quell’atleta ha investito e lavorato ha diritto ad esser ricompensata. Le entrate avute dall’atleta di solito coprono appena il 5/10 % delle spese totali sostenute dalla società per quell’atleta, fra costi di palestre, assicurazioni, eccetera. Attenzione, io non dico di guadagnarci cedendo un atleta, ma almeno di non perderci. Io credo che fra persone intelligenti un accordo possa sempre esser possibile, anche perché in questi ultimi anni sono state poche le società che sono arrivate al muro contro muro. Poi, ovviamente, dipende sempre dai rapporti fra le società, ovvio sia più facile una cessione di una giocatrice ad una società “amica” piuttosto che ad una con la quale si hanno rapporti più freddi. L’importante, in questi casi, è parlarsi sempre francamente e onestamente, cercando di venire incontro alle posizioni della controparte”.
Si è spesso parlato anche di corsi per migliorare anche la “qualità” e la professionalità dei dirigenti, sarebbero una cosa utile o no?
”Sarebbero utilissimi. Già la Fipav trentina s’è messa in moto su questa strada, con stage di una giornata dedicata al minivolley e alcune cose analoghe. Poi penso che sia una cosa personale, rivolta alla singola persona, avere o meno la volontà e l’attitudine a fare i dirigenti. Di attitudine personale star lì tutti gli anni a leggersi tutto il vademecum e scoprire che a pagina 33 sono cambiate due righe rispetto all’anno scorso e allora bisogna fare alcune cose nuove. Un dirigente deve avere tempo, voglia, passione e precisione se vuole cimentarsi con un impegno del genere, anche perché non si tratta di un lavoro retribuito. Quando si avranno due o tremila euro in più per ogni società allora si potrà affidare il tutto ad un dirigente professionista che si occupi solo della società. Una cosa poi mi sono sempre chiesto…”.
Cioè?
“Cioè perché lo sport, l’impegno sportivo, non è considerato volontariato? In altri campi si dispensano finanziamenti, si organizzano corsi di formazione, c’è una grande e giusta attenzione verso il volontariato. Invece lo sport, che per me è una vera palestra di vita, non è considerato sotto questo punto di vista. Per le società piccole della nostra regione sarebbe un gran bell’aiuto in più”.

CHI E’ ROBERTO BORTOLOTTI

Nato a Trento il 18 aprile 1953, è entrato nel volley come dirigente del Marzola a cavallo fra anni Ottanta e Novanta, per “colpa” delle figlie. Da allora è il direttore sportivo del Marzola col quale ha centrato una promozione in B2 ed è poi sempre rimasto in serie C nelle prime posizioni. In questi anni il Marzola ha vinto anche due Coppa Trentino, due Coppa Triveneto e una decina di titoli giovanili.

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