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Il personaggio

Roberto Locatelli, arbitro internazionale

Giocatori, allenatori, dirigenti. Ma non manca qualcuno? Già, mancano gli arbitri, figura senza la quale (volenti o nolenti) non si giocherebbe a pallavolo. Come si è chiusa la stagione degli arbitri? Quali sono i problemi della categoria? Perché sono così pochi? Di un mondo come quell’arbitrale, essenziale per la pallavolo, si parla forse troppo poco e, a volte, solo in caso di situazioni negative. Allora per una volta andiamo controcorrente e nominiamo «Personaggio della settimana» un arbitro, il più rappresentativo fra i fischietti trentini. Ovvero, Roberto Locatelli, l’arbitro di Trento giunto ai vertici della pallavolo italiana stando seduto sul seggiolone. Con lui facciamo il punto della situazione fra passato e futuro della categoria. Buona lettura!

Roberto, la stagione di A1 che si è appena chiusa come si è conclusa per la tua categoria?
«Sotto il profilo prima di tutto tecnico direi bene, molto bene. E non lo dico da arbitro ma con i dati delle rilevazioni oggettive fatte dalla nostra categoria che ci hanno detto di aver disputato una grande stagione. Un’annata chiusa da cinque gare di finale scudetto senza problemi. Senza dimenticare che quest’anno c’è stato uno sviluppo importante quando abbiamo assunto un atteggiamento sindacale e portato a casa dei forti riconoscimenti da parte della Federazione. Riconoscimenti in merito allo statuto degli arbitri, alle divise oppure al riconoscimento economico».
Con quale dei tuoi colleghi di A1 ti trovi meglio ad arbitrare?
«Ormai sono da nove anni in coppia con Barbero e, ormai, siamo diventati praticamente fratelli. Con lui ci troviamo molto bene a vicenda e lo dimostra il fatto che in nove anni abbiamo arbitrato praticamente tutto quello che c’è».
Per un arbitro cosa cambia arbitrare da primo o da secondo?
«A parte la questione prettamente tecnica dei compiti di primo e secondo arbitro, in realtà si arbitra in coppia. Sotto il profilo dell’importanza dei ruoli non c’è alcuna differenza. E’ la coppia che arbitra, cambia solo quello che deve fare uno e quello che deve fare l’altro, cioè che il secondo è responsabile di certe situazioni e il primo di altre. Ma uno non è più importante dell’altro».
E cambia qualcosa ad arbitrare nel maschile e nel femminile?
«Sì, questo assolutamente sì. Cambia la velocità della palla, alcuni schemi di gioco che sono propriamente del femminile, cambia il numero delle difese, il tipo di gioco... Bisogna stare sempre molto attenti perché le differenze sono tante».
La partita più bella che hai arbitrato quest’anno?
«Sicuramente Modena-Treviso, in regular season. Non solo perché è stata una delle gare più belle dell’intero campionato ma perché c’è stato in quell’occasione un grande ritorno del pubblico a Modena. Il palazzetto era stracolmo, sembrava di essere ad un Modena-Treviso di una volta, una delle sfide degli anni 90 quando erano le due acerrime avversarie. Era una vera “guerra totale”».
E quella da dimenticare?
«Perugia-Modena. Perché probabilmente non stavo bene, non saprei, certo è che non è stata tecnicamente arbitrata male ma non è stata gestita bene sotto il profilo disciplinare. Una gara che non rispecchia i nostri standard, dopo di che è stata una nota negativa che io riconosco ma che siamo riusciti a superare visto che poi ci hanno affidato anche la finale scudetto».
Come vive la partita un arbitro?
«Lo spirito di un arbitro è sempre quello del mettersi in discussione ogni volta. Bada che la mia non è una risposta di maniera, ma ogni volta per un arbitro è davvero una partita nuova, un ricominciare da zero. Quindi l’arbitro deve avere sempre la giusta tensione, deve sempre avere un impegno totale per mantenere altissima la prestazione. Poi nelle partite più importanti sai che devi avere una gestione sempre altissima. A Treviso ad esempio, in gara-4 della semifinale scudetto con Treviso avanti due gare ad una, sai che per la Lube era una gara senza ritorno per cui si doveva stare molto ma molto attenti a non sbagliare. In queste gare c’è da tenere alta la tensione e la credibilità».
Come hai scelto di fare l’arbitro?
«E’ stato un caso. Avevo appena 17 anni e un mio compagno di classe una volta mi ha messo la pulce nell’orecchio. Il mitico Giorgio Battisti poi era il mio professore di ginnastica, a me piaceva molto giocare e scherzando mi diceva “tu non puoi che fare l’arbitro”. Così ho provato e ci sono riuscito. Poi è tutto un mix di tecnica e fortuna, alcune circostanze che mi hanno permesso di arrivare in A1».
Non per farvi le pulci in tasca, ma che rimborsi ha un arbitro?
«Parlo per la A1, dove abbiamo un fisso di 300 euro a partita in regular season e di 330 nei playoff scudetto. Chiaramente al netto della trasferta e delle spese. A cascata poi è tutto inferiore, ad esempio in A1 femminile c’è un 10 per cento in meno e A2 maschile anche. Per le serie B e i campionati regionali le cifre sono ancora inferiori. Tanto per farti un esempio però, noi arbitri di pallavolo in un anno prendiamo più o meno 1000 euro in più di quello che prendono gli arbitri di calcio arbitrando una sola partita. Non si parla certo di cifre elevatissime».
Cosa deve fare un arbitro quando sbaglia?
«Dimenticare. Subito. E ripensarci dopo, a fine partita o il giorno dopo riguardando il video della gara e capisce perché ha fatto quell’errore. Un errore non può pesare subito, deve sgombrare la mente e ripartire».
Come deve rapportarsi un arbitro con i giocatori in campo?
«Con franca cordialità. Ci deve essere un vicendevole rapporto buono, ma ognuno ha il suo ruolo. Dopo di ché la credibilità in un arbitro va oltre l’aspetto tecnico, bensì dipende da tutta una serie di situazioni che nella vita sportiva uno riesce a costruirsi. Tante volte ci sono anche scontri durissimi in campo, ma bisogna che alla base ci sia sempre un reciproco rispetto».
Quali doti deve avere un arbitro per essere riconosciuto come un “bravo arbitro”?
«Partendo dal minimo indispensabile, direi che la prima cosa è conoscere bene il regolamento. E lo dico perché non sempre questo è scontato. Poi il regolamento bisogna saperlo gestire, bisogna conoscere il senso della misura e avere la capacità di leggere l’evento. La pallavolo non è solamente nei 9 metri per 18 del campo, bisogna invece capire cosa sta succedendo in campo e fuori. E, di conseguenza, avere la capacità di rapportarsi con l’esterno».
E’ vero che per voi arbitri, come mi hanno detto alcune volte dei tuoi colleghi, è quasi più dura arbitrare nel giovanile che con i professionisti? Dove i genitori spesso sono un po’ troppo “accesi”...
«Io ho smesso di arbitrare in regione proprio per questo motivo. Lo facevo volentieri, anche per far crescere giovani arbitri, ma poi ho smesso proprio per questo motivo. I genitori a volte esagerano davvero, fine del discorso. C’è una sola soluzione secondo me, cioè che i genitori restino fuori dalle palestre. Perché riversano sui bimbi le loro “frustrazioni” o quello che non sono riusciti a fare. E questo non solo sugli arbitri ma anche sugli allenatori, sui dirigenti. Purtroppo il genitore manca completamente del senso dell’oggettività. Anni fa a me alcuni genitori hanno detto che avevo rubato la partita ai loro figli... Me lo ricordo ancora, era un 3-2 a Gardolo in una partita di Under 16. Da allora ho smesso. E tutto questo lo dico da genitore, anch’io ho una bambina».
Come mai sono così pochi gli arbitri trentini?
«Sono pochi in assoluto. Non solo in Trentino, tutti hanno questo problema. Perché è un fenomeno generazionale. Credo sia più difficile arbitrare una terza categoria o un giovanile, per esempio, a Telve o Pieve di Bono che una finale scudetto. Per motivi legati alla difficoltà oggettiva, ambientale e al riconoscimento che uno ha. Ora per fare l’arbitro ci vuole davvero un amore smisurato per questo sport. Sempre meno poi, se vogliamo fare un discorso “sociologico”, i giovani sono disposti ad investire, a fare fatica senza avere un riscontro diretto immediato».
L’anno prossimo i campionati regionali di C e D, con tutte le probabilità, avranno sempre una partita infrasettimanale per la mancanza di arbitri, tu che ne pensi? E’ la soluzione giusta?
«Non è che sia la soluzione giusta, è l’unica soluzione. E’ matematico, se non ce ne sono abbastanza c’è ben poco da fare. Qui in Trentino ci sono giovani arbitri che hanno fatto gruppo, che negli ultimi anni hanno creato molta socialità e atmosfera, però questo è quanto. Mancano arbitri ed è un bel problema».
Cosa può spingere un ragazzo o una ragazza ad intraprendere la carriera arbitrale?
«Si può convincere un ragazzo in diversi modi. Ad esempio, sette od otto anni fa eravamo arrivati ad un punto davvero delicato e allora, insieme al Comitato Provinciale, avevamo fatto una campagna radiofonica con Lorenzo Bernardi come testimonial. E grazie a quella abbiamo avuto una cinquantina di iscritti ai corsi. Adesso non so se una cosa del genere avrebbe lo stesso effetto, dipende da tante cose. Poi tutto dipende molto anche dalle ambizioni che un ragazzo ha, dall’amore di fare parte di un mondo, dal far parte di un gruppo nel quale ti puoi riconoscere e che ha grossi elementi di socializzazione. Oltre, ovviamente, ha un giusto riconoscimento economico che per ragazzi di 17-18 anni non può fare che comodo».

CHI E’ ROBERTO LOCATELLI

Nato a Roncegno il 5 aprile del 1960, ha iniziato ad arbitrare a 18 anni. Dopo diverse stagioni fra campionati regionali e serie B, a 28 anni l’esordio come arbitro in A2 e tre anni dopo, a 31 anni, in A1. A 37 anni la nomina ad arbitro internazionale. Nella sua carriera ha arbitrato sei finali scudetto maschile, tre finali scudetto femminile, cinque final four di Coppa Italia maschile, tre final four di Coppa Italia femminile, una finalissima della Coppa Italia maschile (Macerata-Treviso a Trento, ndr), una Supercoppa italiana maschile, quattro All Star Game maschili, due All Star Game femminili, due finali dei Campionati Europei. Nel 2003 inoltre è stato eletto miglior arbitro italiano.

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